di Alberto Pasquale
Il grido d’allarme è pervenuto da un recente studio condotto dal Sindacato Lavoratori Comunicazione della Cgil, secondo il quale, nel periodo 2008 – aprile 2010, in Italia sono stati “persi” più di 76 milioni di euro, tra mancato reddito dei lavoratori italiani,mancati proventi delle società di nolo e mancati introiti per lo Stato. In questo periodo, solo 302 delle 652 settimane di riprese effettuate da società di produzione italiane si sono svolte in Italia, coinvolgendo in questa dinamica 1.835 i lavoratori esteri, per complessive 74.100 giornate di lavoro “perse” per gli italiani.
L’effettuazione delle riprese all’estero è un fenomeno studiato da molti anni negli Stati Uniti, dove è definita “runaway production”. Le ultime proteste del settore si sono manifestate sia negli anni Ottanta che alla metà degli anni Novanta del secolo scorso con caratteristiche differenti tra i due periodi. Se negli anni ’80 la delocalizzazione delle riprese faceva riferimento soprattutto a strategie di differenziazione del prodotto e coinvolgeva manodopera scarsamente qualificata, alla fine degli anni ’90 la strategia è piuttosto di contenimento dei costi e coinvolge non solo manodopera qualificata, ma anche il ricorso a incentivi fiscali predisposti da governi nazionali e locali in più parti del mondo.
In Italia, si usa il termine “delocalizzazione”, anche se non specificamente utilizzato nell’industria audiovisiva. Nella fiction televisiva, attualmente ci sono due paesi molto ricercati per l’“outsourcing” (o, più correttamente, per l’”off-shoring”): l’Argentina e la Serbia. La prima ha il vantaggio di avere costi di circa il 50% più bassi rispetto all’Italia, la presenza di locations simili alle esigenze di produzioni ambientate in Italia ed una maggiore affinità fisiognomica degli argentini, molto simili agli italiani. Per contro, questo Paese è geograficamente molto distante dal nostro (e quindi è necessario avere gli attori presenti anche quando non si gira), e le condizioni fiscali sono onerose (l’Iva sui costi non è recuperabile). La Serbia invece offre servizi a circa il 35% in meno dell’Italia ma è distante solo un’ora di volo da Roma o Milano, il che consente una maggiore flessibilità. Inoltre la Serbia offre un vantaggio fiscale pari al 15% di quanto speso. Qui tuttavia le fisionomie e le locations poco si adattano a serie o produzioni interamente ambientate in Italia.
Se da una parte il contenimento dei costi consente notevoli risparmi (e quindi guadagni di efficienza), dall’altra si rischia di creare un depauperamento delle competenze professionali (tanto più grave quando a crearlo sono le produzioni finanziate con denaro pubblico) e un sotto-utilizzo delle infrastrutture produttive. Il territorio che perde produzioni subisce una contrazione dei lavoratori impiegati in quel settore e perde competitività strutturale, giacché se prima delocalizzare significava solo dare all’esterno funzioni semplici (“unskilled”), attualmente si delocalizzano funzioni importanti (ingegneria, software, progettazione) con ricadute negative sul sistema economico e sociale. Se è comunque difficile creare nuovo lavoro per lavoratori non professionalizzati ma comunque flessibili, è ancora più complicato trovarne per professionisti laureati, sicuramente meno flessibili.